venerdì 25 gennaio 2008

Prodi ci lascia. Tocca a Massimo Giannini scrivere il necrologio.



Molti meriti, molti errori
di MASSIMO GIANNINI

Stavolta è finita sul serio. Il "guerriero", come l'ha orgogliosamente ribattezzato Diliberto, si è arreso. Triste destino, quello di Romano Prodi. L'unico leader politico di centrosinistra che riesce a vincere contro Silvio Berlusconi per ben due volte, ma per una ragione o per l'altra non riesce a governare per più di 600 giorni. Il Professore ha combattuto fino all'ultimo, ridando uno straccio di orgoglio e un briciolo di dignità a quel pezzo di coalizione che l'ha sostenuto fino all'ultimo. Ma al Senato, il suo vero Vietnam, nulla ha potuto contro il "fuoco amico" dei proto-comunisti alla Turigliatto, dei soliti trasformisti alla Mastella, degli pseudo liberisti alla Dini.

Romano si è fermato a Ceppaloni. Si compie così il destino di un governo che ha finito per pagare un prezzo di immagine e di credibilità molto più alto dei suoi effettivi demeriti. Il risanamento dei conti pubblici in appena un anno e mezzo è un risultato vero, che già di per sé basterebbe a considerare tutt'altro che inutile la pur breve e rissosa stagione del "prodismo da combattimento".

Certo, Prodi ha commesso molti errori. Se dopo il voto della primavera 2006 avesse accettato l'idea di non aver stravinto una tornata elettorale sostanzialmente pareggiata, e avesse lasciato all'opposizione la presidenza di almeno un ramo del Parlamento, oggi forse racconteremmo un'altra storia. Se avesse saputo mettere in riga giganti e nanetti dell'Unione in conflitto permanente effettivo con la stessa grinta sfoderato in questi ultimi tre giorni di crisi, oggi forse non sarebbe caduto per mano dei suoi stessi alleati.

Se avesse compreso fino in fondo la strumentale irriducibilità della scelta ribaltonista consumata dalle truppe mastellate e dal manipolo diniano, oggi forse ci avrebbe risparmiato lo spettacolo, indecente per gli eletti e umiliante per gli elettori, di un Palazzo Madama trasformato in osteria, tra insulti, sputi e bocce di spumante.

Ma l'uomo è così. Alla fine ha prevalso la linea del "meglio perdere che perdersi". Meglio affrontare la sconfitta a viso aperto, offrendo in pasto al Paese il nome e il cognome dei congiurati che uccidono il governo, e degli sciagurati che hanno reso ingovernabile l'Italia, architettando alla fine della scorsa legislatura una riforma elettorale vergognosa che proprio ieri ha prodotto l'ultimo, insostenibile corto-circuito: la fiducia alla Camera, la sfiducia al Senato. Ora che il ciclo di Prodi è finito, quello che comincia è un'avventura in una terra incognita. È quella che Giulio Tremonti definisce la "crisi perfetta", quella dove nessuno controlla niente, e nessuno capisce come se ne possa uscire.

Sul terreno politico-istituzionale restano solo macerie. Per il Professore un reincarico è impensabile. Per un governo tecnico-istituzionale alla Marini i margini sono strettissimi. Per il centrosinistra non si vedono sbocchi unitari: la Cosa Rossa di Bertinotti e company riconquista l'allegra e irresponsabile adolescenza del non-governo e delle mani libere, il Pd di Veltroni sostiene il costo più alto precipitando nel baratro del governo, e rischiando di veder trasformata la sua legittima "vocazione maggioritaria" in una traversata nel deserto incerta e solitaria.

Per il centrodestra, in mille pezzi solo fino a due settimane fa, quando le mura della Casa delle libertà erano crollate sotto i colpi di piccone della "rivoluzione del predellino" del Cavaliere, si rivede invece un orizzonte unitario. E soprattutto si riapre la strada per Palazzo Chigi. Sarà difficile se non impossibile, perfino per il presidente Napolitano, fermare la "macchina da guerra" berlusconiana, che l'uomo di Arcore vuole lanciata a folle corsa verso il voto anticipato. Con tanti saluti alla crisi dei salari, al tracollo dei mercati, al referendum di Segni e Guzzetta. Sta per cominciare, temiamo, tutto un altro film. Berlusconi Tre. La vendetta. O l'eterno ritorno. Con la stessa legge elettorale, la "porcata" di Calderoli, che ha massacrato il sistema repubblicano. Con un'altra armata Brancaleone, che andrà dal neo-fascista Tilgher al catto-populista Mastella, incrociando l'eversore padano Bossi e forse lo stesso "traditore" toscano Dini. Con l'ennesima accozzaglia di mezzi partitoni e di micro-partitini che, per garantirsi la sopravvivenza, non esistano a tenere in ostaggio un'intera nazione. Povera Italia. Meritava di più.

(24 gennaio 2008)- La Repubblica

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